giovedì 12 agosto 2010

IN NOME DEL POTERE


Primedonne, alleati e coni d’ombra della giustizia italiana. Un apparato alla mercé di un manipolo di magistrati decisi ad alimentare il conflitto con la politica. A costo di impedire al paese di sciogliere le vere logge dello spreco e del declino

di Luigi Amicone Tempi del 30/7/2010

Se non fosse per il vezzo di tenersi quella qualifica (e la relativa targhetta apposta all’entrata dell’ufficio) di “giudice istruttore”, figura che nel codice entrato in vigore il 24 ottobre 1989 è stata soppressa per far posto al giudice per le indagini preliminari (Gip), Guido Salvini sarebbe un maggiorente alla procura di Milano. Occupandosi di inchieste sul terrorismo e, di recente, del caso Telecom-Sismi, Salvini si è tenuto rigorosamente alla larga dalle correnti dell’Associazione nazionale magistrati (Anm) e fa parte di quella maggioranza silenziosa di toghe che non apprezzano lo spericolato protagonismo di certi pubblici ministeri. In una lettera aperta ai colleghi, inviata alla vigilia del voto del 4-5 luglio scorso per il rinnovo del Consiglio superiore della magistratura (Csm) per convincerli a votare candidati indipendenti, Salvini ha voluto farsi carico di una voglia di cambiamento diffusa. «Ancora una volta – ha osservato nella sua missiva – il numero complessivo dei candidati delle correnti che si trovano sulle schede è di poco superiore a quello dei seggi disponibili. Ciò significa che tali candidati sono in realtà già stati “designati”. In pratica se non ci fossero candidati fuori corrente potremmo anche non andare a votare perché le scelte sono già state fatte. Se non ci fossero loro non potrebbero nemmeno chiamarsi elezioni ma quasi solo ratifiche».
Non solo le elezioni in seno al Csm sono da molti anni nient’altro che “ratifiche”. Ma la stessa Costituzione italiana è brandita, fin dagli anni del «resistere, resistere, resistere» di Francesco Saverio Borrelli, come una mazza chiodata sulla testa della politica. Da quando il patto di leale collaborazione tra parlamento, governo e magistratura, non scritto ma implicito per la sopravvivenza delle istituzioni e della stessa democrazia, è stato rotto da una minoranza molto rumorosa di toghe attente ai tempi e alle debolezze della politica, la Costituzione è di fatto cambiata. Di fatto, l’ordine giudiziario ha oggi un potere di controllo e interferenza sull’attività dell’esecutivo e del legislativo che non ha eguali in nessuna repubblica parlamentare. Con i guai che ne sono conseguiti in questi ultimi tre lustri e che ora fanno di nuovo presentire i rumori di una possibile fine anticipata della legislatura. Il che sarebbe tragico nel frangente di asfissia economica e sociale in cui si trova il paese. Ma diventerebbe inevitabile se il fuoco politico di sbarramento alle riforme (specie quella federalista) si alleasse (come pericolosamente fa Gianfranco Fini) col giustizialismo senza argini. Ha voglia il presidente Napolitano ad auspicare dialogo e collaborazione per il bene del paese. È ciò che rimane della tradizione politica a cui lo stesso capo dello Stato appartiene a mostrarsi incapace di vigore repubblicano e, come dice splendidamente Clemente Mastella, di «traccia educativa». Chi per primo dimenticò ciò che ora riscopre – detto da Luciano Violante fa effetto – e cioè che «il magistrato dev’essere un leone, ma un leone sotto il trono», si ritrova oggi su una scialuppa alla deriva, senza più punti di riferimento. Né in politica (vedi la condizione sconclusionata del Pd), né nell’ambito delle antiche affinità corporative. Dove l’attivismo di taluni pm non sembra avere altra ambizione che tenere profonde le divisioni e alto il conflitto tra politica e magistratura. E ora, col caso del supposto pitreista giudice Alfonso Marra difeso nientemeno che dalla bandiera dei giustizialisti Piercamillo Davigo, potrebbe addirittura puntare a una guerricciola interna alla stessa magistratura.
Il potere con la P maiuscola non è l’araba fenice o il conio naïf di un sentimento birichino che si sente oppresso da chissà chi. Esiste sul serio e, direbbe Machiavelli, si identifica con il complesso delle idee e posizioni dominanti una determinata società in un determinato momento storico. Consideriamo l’Italia istruita dal circuito mediatico-giudiziario e dall’idea che alla legge, solo alla legge e al codice penale, si possono affidare le speranze di riscossa sociale e di liberazione dagli endemici fenomeni di corruttela: fatte salve le circostanze in cui parlamento e governo non erano espressione di una maggioranza di centrodestra (leggi Silvio Berlusconi), l’attività giudiziaria e l’irrompere sulla scena pubblica del protagonismo assoluto della magistratura è stata una costante di questo potere con la P maiuscola. Certo, anche la precoce fine della legislatura precedente e la caduta del governo Prodi sembrano ascriversi a questa tipologia. Ma il caso Luigi De Magistris, il pm che mise sotto inchiesta il ministro della Giustizia e poco meno di qualche centinaio di uomini più o meno illustri, dai vertici della Guardia di Finanza ai portaborse di Provincia, dai magistrati della porta accanto a una favolosa loggia massonica di San Marino, è soltanto un’eccezione che conferma la regola.

Bella gente, bisogna aver paura
Il fatto è che l’apparizione e il successo di figure di magistrato sconcertanti come De Magistris (si è mai visto un pubblico ministero, che nella sua carriera non ha quasi vinto una causa e che ha lasciato la toga per un seggio di parlamentare, ciononostante impancarsi a professore di diritto e scrivere libri per raccontare che «con il mio allontanamento la magistratura ha perso. Ma io ho vinto, la mia vittoria morale è incancellabile»?) sono stati resi possibili dal combinato disposto di giornali pronti a vendere qualsiasi cosa pur di vendere e degli straordinari sviluppi che hanno avuto negli ultimi anni le tecniche di intercettazione. Non siamo più all’epoca dell’appuntato che orecchia le telefonate, ma a quella del software che registra e archivia milioni di conversazioni col metodo della rete a strascico. Tecniche che hanno determinato circostanze molto spiacevoli di devastazione della vita altrui. Circostanze per le quali oggi i cittadini devono fare molta attenzione a tutto ciò che dicono al telefono. E avere paura.
Perché avere paura, dice la bella gente, se non hai nulla da nascondere? Bè, bella gente, basta leggere un avviso di garanzia per rendersi conto che comportamenti usuali (per esempio all’interno della stessa magistratura, scambi di favori, nomine, incarichi) possono essere letti in contesti diversi come fatti virtuosi o, viceversa, criminosi. Chi determina il momento in cui, dopo tanti anni di onesta lobby dentro e fuori il milieu del Csm, Pasquale Lombardi e il suo assistito giudice “Fofò” Marra diventano i sinistri faccendieri di un Ku Klux Klan dedito alla rapina e al sovvertimento delle istituzioni democratiche? Lo determinano prove fattuali o un determinato contesto politico? Di certo, prima di ogni prova specifica, lo ha già determinato un circuito d’informazione ormai così prono alle ipotesi dell’accusa che non si fa più scrupolo, come ha dimostrato Franco Bechis su Libero, di ripubblicare a luglio e presentare come scoop notizie già uscite a maggio.

I frutti della postura scandalistica
Ciò non toglie che il lettore che voglia fare l’esperimento di saltare, in un giorno qualsiasi della settimana, tutte le pagine dei giornali in cui si parla di processi, inchieste, veleni giudiziari, giungerà alle medesime conclusioni a cui è arrivato Francesco Piccolo sull’Unità: «È stata un’esperienza molto difficile, perché di alcuni quotidiani m’è rimasta da leggere solo la pagina sportiva (e nemmeno tutta)». Insomma, realtà e politica che non siano collegate da un’ipotesi di reato vengono sollevate di peso e buttate fuori dalla cronaca. Cosa rimane al loro posto? Rimangono gli stereotipi (la “questione morale”, le “nuove P2”) che risalgono ai primi anni Ottanta. Stereotipi di matrice catto-berlingueriana coniati dal partito di Repubblica. Diversivi datati, ma pur sempre suggestivi. Per esempio per divagare rispetto alla richiesta di riforma del nostro sistema finanziario. Questo sì immorale. «L’unico sistema finanziario europeo – dice la relazione Tremonti sul federalismo – quasi totalmente centralizzato». Stereotipi che si oppongono al processo di conoscenza delle vere “logge”. Quelle per esempio che si intravvedono dietro l’Italia radiografata dalla Commissione Antonini, il cui lavoro esemplare ci fornisce per la prima volta, a sessant’anni dalla nascita della Repubblica, un quadro documentato degli sprechi e delle ruberie miliardarie dello statalismo.
In effetti si vede cosa produce l’azzeramento del voto popolare a vantaggio della postura scandalistica per la quale Repubblica non sa più che aggettivi pigliare per tinteggiare un’Italia raccontata come una Corea del Nord senza le centrali atomiche. A cominciare dal caso D’Addario e fatta eccezione per l’atto dovuto (all’Europa e ai mercati internazionali) della manovra finanziaria, la conseguenza di questa infinita guerra civile strisciante indotta per via mediatico-giudiziaria è stata che l’agenda dell’anno politico 2009-2010 è rimasta inchiodata ai fascicoli sempre pendenti. Per esempio, non sappiamo ancora i nomi e il numero, probabilmente enorme, dei magistrati che negli ultimi quarant’anni hanno usufruito di buoni uffici consociativi presso il Csm. S’è persa per strada la risposta all’interrogativo, gravissimo, di chi ha prestato casa a Bertolaso. O la spiegazione sovietica di come Propaganda Fide ha usato gli appartamenti di sua proprietà. E che fine avrà fatto quel tale pizzicato in un postribolo di trans e festini alla cocaina mentre la Regione che amministrava viaggiava alla media di un buco di 1 miliardo di euro l’anno nell’ambito della sola sanità? Già, la vittima della società corean-berlusconiana è stata riassunta in Rai. E chissà, magari tornerà a condurre Mi manda Rai Tre.