giovedì 12 agosto 2010

INDAGINI E DIMISSIONI


In difesa di un principio liberale

di Piero Ostellino

Corriere della Sera del 12/8/2010

Quando Gianfranco Fini aveva detto che un uomo politico, qualora sia indagato dalla magistratura, dovrebbe dimettersi, molti nel Popolo della libertà l'avevano presa male. Poiché nel Pdl non mancano gli inquisiti - primo fra tutti il leader massimo - ne avevano concluso che Fini tradiva i suoi e faceva il gioco dell'opposizione. Un'opinione legittima, ancorché di parte. Ma ora che Fini è inciampato in una questione immobiliare, sulla quale i magistrati hanno aperto un fascicolo contro ignoti, quegli stessi ne chiedono le dimissioni da presidente della Camera, come se dipendessero da loro e non da lui. Una richiesta tanto illegittima quanto interessata. Sarebbe un caso di «doppiezza» se non rivelasse la vocazione nazionale a ridurre le questioni di principio a casi personali.
Il principio da opporre al teorema di Fini era semplice: chiedendo le automatiche dimissioni di ogni uomo politico indagato, egli metteva nelle mani della magistratura il Parlamento e il governo, vanificando la separazione e distinzione dei poteri della democrazia liberale. Ciascuno nel proprio ambito, i tre poteri dello Stato godono di una autonomia e di una indipendenza che rappresentano un contrappeso agli altri. I costituenti avevano costituzionalizzato questo principio riconoscendo alla politica di autorizzare o meno la magistratura a procedere penalmente contro un parlamentare. Una forma di contrappeso del Parlamento - nell'ambito della propria autonomia e indipendenza - nei confronti del Giudiziario, la cui autonomia e indipendenza erano incarnate nell'obbligatorietà dell'azione penale. Ancorché decaduta, l'autorizzazione a procedere rimane un esempio che dovrebbe valere anche per quanto riguarda le dimissioni di un indagato. La cui opportunità dovrebbe essere valutata caso per caso.
È evidente che, mentre l'autorizzazione a procedere atteneva agli aspetti procedurali, giudiziari, dell'azione penale, e riguardava i rapporti fra due poteri dello Stato (il Legislativo e il Giudiziario), l'opportunità o meno delle dimissioni attiene, invece, ai risvolti etici dei comportamenti politici e riguarda il giudizio dell'opinione pubblica. Buona regola sarebbe non confondere i due momenti e, allo stesso tempo, rimettere le dimissioni non a un automatismo conseguente a un atto giudiziario, ma all'autonomia della politica o, se vogliamo, al senso di responsabilità di chi le dovrebbe eventualmente dare. Nessun altro può aspettarsi le dimissioni di un uomo pubblico inquisito, o anche solo coinvolto in uno scandalo, che non sia quel giudice supremo della politica che è l'opinione pubblica, che sono gli elettori, il cui giudizio si concreta nella scelta elettorale.
Ecco, allora, perché entra in gioco qui - per dirla con Alexis de Tocqueville - l'altro grande pilastro della democrazia liberale: la libera informazione. Non è compito di media indipendenti organizzare, e condurre, campagne pro o contro uomini e partiti politici per delegittimarne il ruolo istituzionale. Dovere dei media è riferire i fatti ed esprimere giudizi verificabili nei fatti. Il resto è militanza politica. Legittima. Ma altra cosa dal giornalismo.