mercoledì 21 aprile 2010

Memo per i rubamazzi del Pdl


L’unico statista occidentale al quale si può avvicinare il “famigerato” Silvio Berlusconi, ormai, è Charles De Gaulle. Il leader francese nel corso della sua vita politica fu sistematicamente sottoposto dalla sinistra di François Mitterrand e dal sedicente meglio della cultura francese ad accuse pesanti come quella di essere eversivo e anticostituzionale, autoritario ed egolatra. Esattamente come da quindici accade per Berlusconi.
Charles De Gaulle odiava la Costituzione imbelle della Quarta Repubblica e non lo nascondeva. Per questo i partiti lo utilizzarono come presidente del Consiglio icona di France Libre, all’indomani della guerra, per poi mandarlo subito a casa. E lui aspettò, appartato a Colombey-les-deux-Églises. Fino a tratteggiare una nuova Costituzione «approvata dal popolo e non dal Parlamento». Lanciò l’idea esplosivamente, con un mitico “discorso del predellino”, il discordo di Bayeux che per ogni gollista è verbo divino. E che fu consacrato dall’83 per cento dei voti francesi. Presidente della Repubblica, a quel punto, comunque era insoddisfatto: perché voleva il presidenzialismo e l’elezione diretta popolare. Quando per l’ennesima volta i partiti in Parlamento lo bloccarono, ed erano passati altri quattro anni di lotta al coltello, De Gaulle sciolse le Camere e rivolse direttamente all’elettorato un quesito sul presidenzialismo che in termini di rigore costituzionale era illegittimo: eppure i francesi lo approvarono al 62 per cento, e gli diedero piena maggioranza in Parlamento. Farà la stessa cosa anche nel 1968. Di fronte ai rivoltosi del maggio francese scioglie il Parlamento, chiama a Parigi un milione di gollisti e stravince alle urne. Di appello diretto in appello diretto, finirà per perdere un referendum su una questione secondaria (i poteri delle Regioni, guarda caso) e a quel punto, nell’aprile del 1969, si dimetterà per l’ultima volta, non essendovi da nulla costretto se non dalla propria natura, sdegnosa e coerente. Dopo sedici anni di lotta al coltello e di appelli diretti al popolo, contro la Costituzione della Quarta Repubblica e anche contro quella della Quinta, incompleta senza l’investitura diretta.
Che cosa resta di De Gaulle nella storia? Le accuse di eversione che gli lanciavano avversari politici e stimati uomini di cultura, oltre al meglio del meglio dei settimanali francesi a gauche? No, solo la grandezza. E la tempra del combattente. Non solo del combattente antifascista. Del combattente antipartitocratico, antiparlamentarista, presidenzialista.
Silvio Berlusconi il fegato di lanciare campagne vere per buttare a mare l’attuale Costituzione, mettendoci la propria faccia sopra, in realtà non l’ha mai avuto. Ma le accuse sono le stesse. E sono passati quindici anni, rispetto ai sedici di De Gaulle. Ora o mai più, verrebbe da dire
Certo è che, se il Cavaliere si ritirasse sdegnoso a sorpresa in una sua Colombey, accetterei scommesse sulla rapida fine che farebbero i più dei tanti che se ne disputano le spoglie quando ancora è l’unico leader acchiappavoti. Sarà, ma io non vedo dei Pompidou, dei Chaban-Delmas o dei Debré, alla sua ombra. E il paragone vale quel che vale, la storia non si ripete e l’Italia dell’Eterna Fronda naturalmente non è la Francia dei Re assoluti. Ma una volta ritiratosi per davvero il gollismo di massa finì per sempre e Mitterrand la ebbe vinta per molti anni.
Ci pensassero, i tanti rubamazzi che sembrano far capolino da un anno a questa parte nel centrodestra. Se hanno in testa e nel cuore l’affossamento di Silvio ritenendolo eccessivo e ormai spacciato, devono mostrare fegato e coerenza, metterci la faccia e rischiarla tutta senza usberghi istituzionali. Altrimenti avranno briciole, invece che nuovi forni in cui cuocere il pane fresco che alla politica serve quasi più che alle tavole quotidiane.