
La preoccupazione è forte, sarebbe bello sapere già come andrà a finire, perché sulla condizione dei precari non tutti siamo d’accordo. Stiamo a domandarci se la flessibilità sia un male assoluto o se la soluzione passa attraverso l’ottimizzazione delle forme di lavoro atipiche. La discussione è aperta.
Innanzitutto bisogna precisare che la precarietà non è legata alla flessibilità, ma è conseguente alla percezione di mancanza di tutela del lavoratore.
La seconda precisazione da fare è che la flessibilità non è legata a forme contrattuali, ma conviene ad una specifica tipologia economica. Infatti, ogni sistema di economia ha il suo profilo di lavoro dominante che lo caratterizza e lo alimenta. A livello di quadro sistemico complessivo, va detto che le tipologie del lavoro arrivano ad influenzare l’organizzazione sociale, perché hanno funzione di controllo. Ma la mia riflessione vuole essere circoscritta al discorso del lavoro.
In questa fase storica il lavoro atipico fa capo a modelli contrattuali inquadrati in meccanismi di flessibilità che si alimentano della deficienza di razionalizzazione, cioè di assenza di regole certe.
Quando è stata avviata la macchina dell’Unione Europea, penso alla fase recente in cui è entrata in vigore la moneta unica, il mercato del lavoro del sistema economico europeo è stato segnato dalla contingenza del momento e non ha potuto far altro che essere flessibile. Quindi, alla base il sistema lavoro comunitario non è stato dettato da esigenze di discontinuità. Ciò è testimoniato dal fatto che la Comunità Europea, non ha elaborato alcun modello di ammortizzatori sociali a favore della mobilità, nemmeno a livello sussidiario. Ovviamente la mia riflessione muove sul piano della concretezza, sui fatti, perché di teoria ne ho letta tanta e pure di buona qualità, come quella di Marco Biagi che ho seguito sul Sole 24 Ore fin quando una banda di cretini l’ha fatto tacere.
In questo contesto, già da prima della crisi, le risorse teorizzate e disponibili per gli ammortizzatori a supporto del lavoro atipico erano scarse e limitate alle grandi imprese, quindi funzionali alla tutela di una minoranza di lavoratori e prescindendo dalle forme contrattuali.
La crisi potrebbe rappresentare l’occasione per mettere a punto una serie di riforme concentrate sulla tutela del lavoro. Quindi, da una parte rivalutare il valore del posto fisso e dall’altra dar luogo ad una discussione su un sistema di servizi a supporto del lavoro atipico, che funzionino ad integrazione degli ammortizzatori sociali (oggi monetizzati) e soprattutto in favore della mobilità.
Così, quando la crisi sarà alle spalle il sistema economico sarà servito da due modelli di lavoro, da quello tipico, dei contratti a tempo indeterminato per la grande impresa, e dal sistema flessibile per le piccole imprese.
Di questi tempi qualcuno pensa che i lavoratori atipici sono i più sfigati perché sono stati i primi a saltare con la crisi economica. Qualcuno avrà pure goduto nel vedere in televisione le immagini dei funzionari della Lemann Brothers lasciare l’azienda di fretta, in tuta e coi pacchi contenenti le cose d’ufficio. Ma per Assolavoro (Associazione delle Agenzie per il lavoro) saranno proprio gli atipici a trovare le prime ricollocazioni.
Uno dei punti di discussione sul sistema dei servizi sussidiari al precariato può essere quello di incrociare le esigenze delle persone alla ripartenza, attraverso la formazione, anticipando le professionalità di cui il mercato avrà necessariamente bisogno. Ma ciò va fatto nella direzione di garantire sempre maggiore stabilità per i lavoratori atipici.
Nell’ottica dell’esigenza di garanzia di stabilità al sistema, il giudizio sull’operato del Governo nella fase più nevralgica della crisi è positivo, perché integrare il reddito in caso di sospensione dell’impiego, ponendo la condizione che venisse mantenuta la bilateralità con le aziende, è una misura oltre che opportuna, anche equa. In tal senso i dati sono confortanti, soprattutto se comparati con quelli di altri paesi europei. Ad esempio a giugno 2009 il Pil nazionale (-6,05%) era pari a quello svedese (-6,15%). Ma al contempo l’Italia registrava un tasso di disoccupazione del 7,35% e la Svezia segnava l’8,05%. Se poi ci confrontiamo nello stesso periodo con altri paesi, quali la Francia, la Germania o la Spagna, la nostra economia della crisi ha retto.
Programmare il sistema di servizi a sostegno del lavoro atipico in questa fase sarebbe molto giusto, nonché opportuno. Perché per quanto i dati economici ci indicano che l’ingranaggio dell’economia si sta mettendo in moto, e diciamo che queste notizie fanno bene alla fiducia dei consumatori e alla complessiva ripartenza, ancor più fiducia la gente avrebbe se potesse toccare con mano la visione di affidamento che va oltre la crisi.
Insomma, il sistema di ammortizzatori sociali dovrà essere organizzato in base ad una prospettiva ragionata su un modello economico rinnovato.
Così anche i meno temerari potranno cogliere le nuove opportunità che si avranno nel tempo in cui la crisi sarà superata.