venerdì 17 dicembre 2010

LA PERSONA AL CENTRO DEL DINAMISMO SOCIALE

di Giuseppe Mussari
Presidente della Banca Monte dei Paschi di Siena

Tratto da ATLANTIDE - rivista della Fondazione Sussidiarietà

La “ragione” è analisi, determinazione, apparentemente oggettiva. Il “sentimento”
è, apparentemente, istinto, impulso, irrazionalità.
A volte quello che appare essere comodamente ragionevole è, nello stesso tempo,
profondamente ingiusto, in questi casi è il sentimento a correggere il senso di marcia e rendere umana la scelta razionale.
Spesso in questi frangenti si costruisce o si recupera molto più Valore, di quanto ne
avrebbe distrutto una scelta semplicemente e comodamente razionale.
L’Universale del particolare dell’Uomo nasce proprio dalla collisione di questi due
folgoranti momenti, dal loro incontro. Nel mondo reale le implicazioni di una scelta
non sono sempre riconducibili o codificabili secondo categorie date. È la ragione
stessa a suggerirci di prendere coscienza dell’ignoranza come limite oggettivo
dell’uomo, dell’imponderabilità degli eventi, dell’imprevedibilità del futuro, della
necessità di riferirsi continuamente a un disegno più ampio che sia in grado di trascendere la mera contingenza. Nel fare questo il sentimento lo guida, sconfiggendo
la razionalità egoistica.

L’uso completo della ragione, in questo contesto, richiama un principio che, superando l’insufficiente oggettività, ci consente di mantenere le radici della ragione nel razionale dando spazio anche alla forza del sentimento, al valore dell’idea e del fine. Elementi preziosi per governare fenomeni complessi e di lungo orizzonte come, ad esempio, la realizzazione di una grande opera infrastrutturale o un’operazione di crescita e di profonda riorganizzazione aziendale. Perché la domanda e il paradigma che governa il “periodare”, il Ποιειν, dell’Uomo è sempre unico: è la Funzione che crea lo strumento o viceversa?
La ragione, cosi declinata, supera l’egoismo sempre di breve termine, la visione
miope secondo la quale si valutano le decisioni in base alle conseguenze di immediate: quello stesso atteggiamento che conduce alle “bolle”, alle mode passeggere, ai facili entusiasmi e alle cocenti delusioni, alla distruzione di valore e di valori. C’è differenza con ciò che si vuole ottenere con il cuore? No. In questo caso la ragione è strumento. Lo è come forma mentis, rivolta a una visione di lungo periodo, capace di costruire e fare apprezzare la sostenibilità e la continuità dei risultati, di scegliere tenendo conto delle conseguenze su un ampio insieme di soggetti, ben oltre quindi, se stessi, una parte politica, azionisti, manager e dipendenti. In questa accezione la ragione è la necessaria premessa per il consapevole riconoscimento del proprio ruolo nel contesto in cui si agisce, con le relative ricadute, positive o negative.
Nell’epoca in cui viviamo, il governo ragionevole delle aziende è un patrimonio
tanto importante quanto raro: il ciclo economico internazionale attraversa una fase
gravida di rischi, sempre più contraddistinta dalla speculazione di breve periodo.
Questo porta alla necessità di una profonda riflessione sul tema dell’approccio
etico all’economia reale e finanziaria.

In una situazione dominata solo dalla certezza dell’incertezza, da dinamiche di sistema “caotiche” e profondamente ingiuste, da una rete di rapporti freddi, impersonali, iperdinamici e confusi, il fattore chiave per scoprire la radice di un
comportamento etico e ragionevole è la centralità della persona. Come l’individuo
si pone rispetto agli altri e alle cose? Come lo stesso si pone nei confronti della realtà esterna, del contesto sociale ed economico del suo tempo? La domanda ha
sempre appassionato gli studiosi. Sin dall’Ottocento i filosofi si confrontano sul
ruolo dell’individuo rispetto all’ambiente che lo circonda e al consorzio\contesto
umano in cui è inserito e si muove. Per Hegel il principio basilare era la soggettività.
Guardava, ovviamente, a Kant, ritenendo la nostra partecipazione alla creazione
della realtà che ci appare (fenomeno) unendo il non conoscibile (noumeno)
con i nostro “a priori” mentale (spazio e tempo). Ecco Kant: «Dobbiamo abbandonare
l’opinione secondo cui siamo degli spettatori passivi, sui quali la natura imprime
la propria regolarità, e adottare l’opinione secondo cui, nell’assimilare i dati
sensibili, imprimiamo attivamente a essi l’ordine e le leggi del nostro intelletto. Il cosmo reca l’impronta della nostra mente».
«Con l’accentuare il ruolo svolto dall’osservatore, dall’investigatore e dal teorico
Kant lasciò una traccia indelebile non solo nella filosofia, ma anche in tutte le
scienze dell’uomo» (Karl Popper).
Abbiamo visto cambiamenti radicali, ma dal principio di soggettività non ci si è mai
allontanati troppo. Anzi, è nel Novecento che si sono sviluppati gli studi su come
l’uomo riesca a determinare l’esperienza del mondo che lo circonda. Di nuovo, è
una questione di sentimento o di razionalità? O è possibile, meglio, necessario, mescolare l’uno all’altra?

Partiamo da un’azienda: quanto, apparentemente, c’è di più lontano dalla sfera dei
sentimenti.
L’impresa che voglia avere un profilo autonomo, riconoscibile nel tempo, deve saper
coltivare e promuovere la generazione e la crescita della conoscenza: dei clienti,
dei dipendenti e dell’intera collettività, in base al principio per cui «ottenere un
successo significa aver prima ottenuto il successo degli altri». Ogni azienda, in primis quelle bancarie e finanziarie, giocherà la lotta per la leadership sulla relazione con i clienti e sulla condivisione responsabile e consapevole dei fini con il proprio patrimonio umano. Tali fattori – intesi come capacità, conoscenze ed esperienze accumulate e spendibili nel contesto aziendale – diventano determinanti, unici e irripetibili.
Nel nuovo rapporto che l’impresa stabilisce con il mercato, il vero bene di scambio
diviene la conoscenza, ovvero l’insieme di rapporti e di capitale immateriale che
ogni organizzazione e ogni individuo accumula nel corso della propria esperienza.
Quello che si sa conta molto di più di quello che si ha. Al contrario di capitale e lavoro (che sono utilizzabili in quantità “finite”), la conoscenza ha un grande vantaggio: se comunicata e condivisa, rappresenta una risorsa “infinitamente” rinnovabile e “scambiabile” sul mercato. In questo quadro, la ricerca dei talenti e la formazione continua, anche e soprattutto in termini valoriali, sono elementi fondamentali nel processo strategico e nella sua valutazione economica: sono asset da considerare un investimento e non un mero costo, un’attività che genera valore e che deve misurarsi e confrontarsi con i risultati gestionali.
Perno di qualsiasi azione è quindi la persona: essere antropocentrici implica un importante cambiamento di prospettiva. Solo attraverso la condivisione degli interessi possiamo sperare di costruire un percorso evolutivo di contaminazione cognitiva e culturale che permetta a noi e a tutti i nostri stakeholder di crescere insieme e contemporaneamente. In questo modo l’azienda diventa un vero e proprio veicolo di trasmissione di qualità e sensibilità, emotiva e culturale, attraverso la riflessione e l’approfondimento di tematiche che siano espressione di valori autentici e condivisi.
La prima regola dunque è ascoltare, condividere le passioni dei nostri interlocutori,
al fine di accrescere sensibilmente la conoscenza reciproca per arrivare alla
creazione di un reale valore aggiunto.
Nell’attuale sistema competitivo è di fondamentale importanza la capacità di “continuità nel tempo” del sistema azienda, la possibilità, cioè, di generare valore nel proprio processo di trasformazione, lungo una rete che la lega alla collettività. In questo senso la generazione di valore nel processo di trasformazione è il punto chiave della competitività strategica di ogni organizzazione e, quindi, quanto più elevata è questa capacità e, soprattutto, quanto più è stabile nel medio-lungo periodo,
tanto più un’organizzazione legittima la propria continuità nel tempo e
quindi è competitiva. Il senso pieno del valore non si trova allora nel risultato, magari “ottimo” ma fine a se stesso, di breve periodo, bensì nella sua continuità, in
definitiva nella tenuta, nel tempo, del rapporto di fiducia che si è stati capaci di instaurare.
Continuità è sinonimo di disegno, di costruzione complessa ed efficiente
che guarda al tempo come parametro, all’interno del quale i valori di fondo che
reggono l’impresa trovano in ogni momento il riscontro positivo della loro validità.
Sulla base di queste riflessioni, appare evidente che lo specifico del ruolo manageriale nell’impresa sembra oggi essere quello di accettare che non si possono trarre “regole” o “ ruoli certi” nella complessità, ma che proprio per le caratteristiche della complessità stessa ci si deve assumere il rischio etico della scelta di sintesi specifiche, con un’assunzione di responsabilità non solo per gli effetti diretti, ma anche per quelli che dalle scelte stesse derivano. Si collega a questo una diversa concezione del comportamento “manageriale”, fondato sull’etica del rischio responsabile, di tipo antropocentrico, che si sviluppa sulla piena consapevolezza che le nostre scelte devono essere fondate sulla convinzione della necessità di azione che tali scelte presuppongono, ed essere nel contempo legittimate dalla piena assunzione a proprio carico degli effetti, anche non desiderati ma comunque derivanti dalle scelte stesse. In altri termini, quello che appassiona è la ricerca del fine, della ragione fondante nell’agire di un’impresa, elemento che non può ridursi all’efficienza e al successo economico, anche se da questi non può prescindere. Il mezzo, allora, il tempo, le modalità, e di nuovo i ini, e l’uomo quale fine ultimo, soccorrono, evitano di smarrirsi nelle mode, nelle bolle, nel tempo breve, che, da sempre, distruggono più valore di quanto siano in grado di generarne. Questi ragionamenti non possono prescindere da una breve riflessione relativa al significato di leadership. In una dimensione come la nostra, sempre più orientata a canoni di efficienza e performance esasperate, appare necessario richiamare valori e parametri che reinventino il ruolo del manager e del suo impatto sui processi di crescita aziendale. Il responsabile di un’azienda complessa deve esprimere ampio respiro etico e valoriale, perché tali elementi sono essenziali per il successo dell’impresa nell’accezione sopra riportata. Ne consegue che la leadership deve manifestarsi e confrontarsi con un’ampia varietà di stili gestionali apprendendo dalle esperienze fornite dalle attività di business ma, soprattutto, anticipando gli scenari possibili, senza mai accontentarsi di seguire il profilo che un certo pensiero unico vorrebbe imporre. In questo percorso è essenziale coinvolgere chi ti sta intorno, avendo una straordinaria capacità di ascolto delle esigenze e delle riflessioni fornite dai collaboratori e dipendenti.
A questo scopo è necessario lacerare il velo di una consolidata ipocrisia: quella che
vede la possibilità di fare scelte economiche e finanziarie senza avere un’etica di riferimento.
Senza quest’ultima, infatti, non vi può essere agire comune, e alla lunga
né impresa o mercato. Il tutto senza, peraltro, nascondere il fatto che si tratta di un agire dinamico, di una ricerca dell’eccellenza senza un termine dato, e che per non smarrirsi in questo incedere, per non subire passivamente il canto di troppe sirene, occorre continuamente rifarsi alla centralità dell’essere umano, unica bussola in grado di farci evitare qualsiasi ostacolo, qualsiasi moda, e al contempo di condurci a un successo sostenibile ed equilibrato.
L’azienda vive in un mondo che cambia. Il senso, l’orientamento, l’esistenza del
cambiamento ne favoriscono la crescita, le impongono un dinamismo virtuoso.

La stabilità del circostante costringe l’impresa nei suoi confini, tanto da imporle, in alcuni casi, la fuga dal suo contesto originario. Per non soffocare.
Rischiamo di perdere il gusto di cambiare, di costruire nuove “cattedrali”, per il timore di essere in grado solo di distruggere senza saper edificare in maniera sostenibile.
L’uomo non è “al di sopra”: non ha la supremazia assoluta, svincolata dalla valutazione delle conseguenze delle proprie azioni. L’uomo non è neppure “al di sotto”: le sue esigenze non sono necessariamente subordinate e contrapposte a quelle della “natura”, che finisce per “devastare” ogni qualvolta tenta di modellarla a proprio beneficio.
La centralità dell’uomo presuppone invece fiducia nella sua capacità di saper interagire con il mondo, pur legittimamente finalizzando il proprio operato alla ricerca di un vantaggio per sé medesimo e i suoi simili. Coniugare sviluppo e qualità, realizzare senza distruggere: sono queste le idee che devono guidare l’uomo nel progettare il suo futuro e quello delle prossime generazioni. Avere l’ambizione di lasciare un segno a chi verrà dopo di noi. Non siamo capaci di prevedere con precisione quello che sarà l’impatto delle nostre azioni sull’ambiente e la società. Ma tale ignoranza non può condurre all’inerzia, alla filosofia del “meno si fa meno
danno si cagiona”.
Occorre “fare”, pur impostando, con correttezza, un imprescindibile dialogo con
tutti gli interlocutori, quelli che per primi percepiscono la divergenza fra le loro esigenze – e talvolta le consolidate sicurezze (spesso piccoli egoismi) – e gli interessi più generali. In questo rapporto con le parti della società occorre realizzare la partecipazione e il coinvolgimento, senza deleghe in bianco. La partecipazione deve svolgersi nell’ambito di regole e limiti definiti preventivamente, prevedendo processi che consentano di giungere inevitabilmente a una finalizzazione del processo decisionale. Si possono immaginare ruoli di proposta, controllo e verifica attribuiti alle comunità, nonché prevedere meccanismi di compensazione, ma deve esistere una attribuzione di capacità decisionale finale – rifuggendo dal “decisionismo ondivago” (cambiando idea troppo spesso) – e questa non può che essere dei soggetti che per loro natura sono investiti del compito di mediare le diverse istanze, ponderando quelle particolari e quelle generali, quelle locali, regionali e nazionali.
In questo paradigma si ritrovano a procedere nel medesimo senso di marcia il futuro
dinamico dell’azienda e la crescita sostenibile di ogni comunità che non voglia
rassegnarsi a un’inerzia inconcludente.