domenica 10 ottobre 2010

La fine della politica

di Piero Ostellino

Tony Blair dice alla nostra sinistra: «Parlate di politica, non di scandali». Ma l’antiberlusconismo giudiziario è la sola risorsa di cui pare disporre il Partito democratico nella sua opposizione al centrodestra. Gianfranco Fini fonda un partito sul «principio di legalità»; ma «legalità » pare più uno sberleffo ai tentativi di Berlusconi di sottrarsi alle iniziative della magistratura che l’ovvio e naturale indotto dello Stato di diritto. Parte dell’opinione pubblica sostiene il primato della morale sulla politica, non secondo Erasmo e Kant, ma i «vaffa» di Grillo. Il Cavaliere è per il primato della politica sulla morale, non secondo Machiavelli e Hobbes, ma le memorie, a sua difesa, dell’avvocato Ghedini.

Sono gli effetti della «giuridificazione della politica», cioè dell’abdicazione della politica al giustizialismo, al moralismo e all’opportunismo. La coda di Tangentopoli e Mani pulite. Non siamo alla dottrina pura del diritto di Kelsen — «il diritto è una sfera autonoma, scevra da qualsiasi rapporto di forza e indifferente a qualunque elemento impuro sia esso politico, sociale, etico» (Carl Schmitt). Ma alla zoppicante grammatica e alla approssimativa sintassi democratiche, prima che giuridiche, di Antonio Di Pietro. Insomma, a una caduta verticale della categoria del politico.

Ora, se la classe politica avesse anche solo un barlume di cultura storica ricorderebbe che il dibattito fra i sostenitori delle «dure ragioni della politica» e quelli delle «forme del diritto» era stato il preludio, sia pure ancora sotto il profilo dottrinario, della crisi istituzionale della Repubblica di Weimar. Se la nostra intellighentia avesse anche solo un barlume di cultura politica saprebbe che, non la razionale distinzione fra politica e diritto, ma l’artificiosa contrapposizione del diritto alla politica—cioè il trasferimento dalla realtà dell’interazione sociale a un universo normativo astratto — è stata l’accusa (ingiustamente) rivolta a Kelsen liberal- democratico, prima che teorico del positivismo giuridico; mistificazione e negazione, al tempo stesso, dei fondamenti storici, sociali e giuridici del liberalismo — la tradizione cara ai liberali non meno che ai conservatori — pre-condizione della «democrazia dei moderni».

Il Paese è fermo all’assassinio di Giovanni Gentile, il filosofo che aveva tradotto l’idealismo in attualismo, conferendo dignità storicista allo Stato etico fascista, e che un pugno di partigiani aveva assassinato nella convinzione di uccidere il teorico del Tiranno, così come oggi qualche pazzo minaccia giornalisti che presume vicini a Berlusconi, scambiandoli per i suoi teorici. L’abbiamo già stigmatizzato su queste stesse colonne. Da una parte gli antiberlusconiani, dall’altra i berlusconiani. Che si insultano e criminalizzano reciprocamente, col risultato di aver sanzionato la fine della politica e di aver creato, col caos attuale, le premesse di un avvenire incerto per la nostra (già) pasticciata e fragile democrazia. Come nella Germania ai tempi di Weimar. Ancorché, fortunatamente, senza lo spettro di un nuovo Hitler— ma, malauguratamente, con quello di una qualche sorta di peronismo — all’orizzonte.