martedì 21 settembre 2010

Quella grande piccola impresa

Il bocconiano Paolo Preti contro il luogo comune che costringe (anche il “simpatizzante” Tremonti) a stigmatizzare le dimensioni ridotte delle aziende italiane come un handicap. E se invece il nostro fosse «un modello di sviluppo del tutto originale»?


di Paolo Preti

Quello del ministro dell’Economia Giulio Tremonti al Meeting di Rimini è stato un discorso che ha saputo convincere con poche righe per ciascuno la maggior parte dei suoi interlocutori: Europa, sinistra, sindacati, cattolici (dando per scontato che il centrodestra fosse già dalla sua parte dopo un luglio-agosto manovriero fatto di silenzi in risposta alle richieste di alcuni, e di precisi interventi a sostegno di altri). Anche la parte riservata a Confindustria e al mondo delle imprese non poteva dunque che partire da un tema caro all’attuale presidenza di quell’associazione: «La competizione oggi si fa tra giganti, mentre gran parte del Pil italiano è generato da piccole imprese sotto i quindici dipendenti», con la risaputa conseguenza per cui si dovrà legiferare per facilitare l’aggregazione tra imprese. Ma, subito dopo, ecco il riconoscimento che laddove opera l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori – appunto nelle imprese con meno di quindici collaboratori – la conflittualità capitale-lavoro è pressoché assente. Qui emerge, in questa apparente contraddizione per cui le piccole imprese vanno bene quanto a rapporto tra imprenditori e lavoratori ma non sono adatte a competere nell’economia globalizzata, un punto che necessita approfondimenti. Sembrerebbe che queste benedette – in senso letterale – piccole e medie imprese (Pmi) non siano ancora riuscite a conquistarsi agli occhi del superministro, che peraltro ha più volte manifestato verso di esse la propria simpatia, una definitiva consacrazione, anche internazionale. Tra di noi possiamo difenderle riconoscendone i pregi, ma quando si tratta di volare alto, allora no, è più politically correct vederne i limiti e proporre una via di uscita.
È il momento, invece, di riconoscere pienamente questo fenomeno, di pensare che si possa trattare di un modello di sviluppo del tutto originale da difendere e sostenere. A chi denuncia i limiti, più o meno strutturali, del nostro fare impresa, occorre opporre, con la forza dei numeri ma anche come ipotesi culturale, una posizione diametralmente opposta: non debolezze da superare, ma peculiarità da difendere impegnandosi, evidentemente, a ridurne gli aspetti negativi e a migliorarne l’efficacia. Non si tratta di valorizzare solo la dimensione media tipica delle nostre imprese, ma di estendere il riconoscimento ad altre caratteristiche peculiari, al pari della dimensione, della struttura e del modo di operare della maggioranza delle nostre aziende. Questi fattori sono la vocazione imprenditoriale, la proprietà familiare e l’attività a prevalenza manifatturiera. Queste quattro caratteristiche, integrate fra di loro, costituiscono un unicum nel panorama economico internazionale per contributo alla creazione del prodotto interno lordo, per capacità di export, per numero di posti di lavoro, per numero di imprese. In Italia il contributo sul totale, in queste come in altre grandezze economiche, di aziende di piccola e media dimensione, di proprietà familiare, a vocazione imprenditoriale e con attività prevalentemente manifatturiera è tra i più alti in percentuale, ma spesso anche in valore assoluto, rispetto a quello realizzato da imprese a queste confrontabili in altre economie nazionali sviluppate.

Una cultura da diffondere
Anche nel nostro paese operano imprese di medio-grandi dimensioni: ciò è un bene perché permette all’Italia di essere presente in settori dove le economie di scala hanno un ruolo strategico essenziale, in altri dove l’importanza della ricerca e sviluppo implica ingenti investimenti in quella funzione e in altri ancora dove si persegue e salvaguarda l’interesse collettivo. Inoltre le grandi imprese creano e diffondono cultura industriale e assicurano ricadute produttive, quindi occupazionali, per l’indotto delle piccole. Tuttavia non si può non prendere atto della riduzione negli ultimi cinquant’anni del numero di imprese con più di mille dipendenti e soprattutto del venir meno o del ridimensionarsi, per i motivi più vari, di molte tra quelle aziende che con la loro presenza sui mercati internazionali avevano caratterizzato il Dopoguerra economico del paese. Contemporaneamente non si può negare la crescita, negli stessi anni, delle imprese di minori dimensioni sia in termini di numeri che di capacità strategico-organizzative. In tutte le organizzazioni imprenditoriali, anche nella più importante, il numero delle piccole imprese associate supera di molto il 90 per cento del totale e valori percentuali importanti, anche se non così alti, le Pmi contribuiscono a produrre, come già sottolineato, in molte altre grandezze economiche.
Diversi segnali di novità si sono però osservati anche nelle modalità d’azione di questa classe di aziende. Non più solo o prevalentemente subfornitori o terzisti legati a monoclienti di cui costituivano sostanzialmente un’appendice produttiva, ma capacità di diversificare la clientela, di diventare co-maker del cliente per la riconosciuta e apprezzata capacità di contribuire con la qualità del proprio lavoro alla realizzazione di un prodotto finale di valore o addirittura di andare al mercato di sbocco con propri prodotti. Non più solo titolari di lavorazioni povere e marginali, capaci di competere sul mercato esclusivamente con la leva del costo, ma operatori di nicchie globali nell’ambito delle quali spesso è presente un numero limitato di aziende a livello mondiale, a volte molto più grandi. Non più solo imprese semplici da un punto di vista organizzativo e di gestione del personale, quasi da poterle identificare come flessibili perché disorganizzate, ma anche realtà imprenditoriali che hanno saputo sperimentare – come Tremonti ha riconosciuto – modalità innovative nel rapporto con i collaboratori e nella divisione verticale e orizzontale del lavoro. Non si tratta certo della maggioranza delle Pmi ad aver realizzato questi cambiamenti, ma il numero comunque consistente di esse ha un’importanza simbolica: dimostra al mondo imprenditoriale la possibilità del percorso evolutivo e smentisce definitivamente la facile equivalenza tra dimensione e complessità. Si potrebbe anzi affermare che questi cambiamenti, al di là del numero di imprese coinvolte, dimostrano come il vero limite non stia nella dimensione aziendale, ma nella cultura imprenditoriale che occorre impegnarsi a fare crescere anche diffondendo la conoscenza degli esempi virtuosi.

Pmi si nasce e si diventa
Per migliorarsi, infatti, la piccola non deve necessariamente diventare grande, o aumentare le dimensioni, ma essere più sé stessa, andare al fondo della propria identità. Da questo punto di vista c’è un’ulteriore interessante considerazione: negli ultimi anni si moltiplicano i casi di fecondazione reciproca tra questi due mondi. La piccola apprende dalla grande tecniche gestionali, pur adattate alle specifiche necessità, e modalità organizzative. La grande al contrario si ispira alla flessibilità della piccola e tenta di ridurre la burocratizzazione con iniezioni di imprenditorialità a tutti i livelli. Se poi alcune di queste piccole imprese, meglio se molte, raddoppiassero il proprio fatturato – e la cosa come sanno gli imprenditori è più facile a dirsi che a farsi – ben venga. Tuttavia le imprese risultanti apparterrebbero pur sempre al segmento delle aziende di piccola e media dimensione.