lunedì 13 settembre 2010

Scivoloni di “politica industriale” per Napolitano


Dalla Fiat alla successione di Scajola

di Oscar Giannino

Quando governo e politica ballano su un filo, nel nostro sistema costituzionale è pressoché fisiologico che sia il capo dello Stato ad acquistare ancor più rilievo e influenza. È quello che è inevitabilmente avvenuto in questi ultimi mesi, a maggior ragione e con più evidenza quando la tensione tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini ha toccato il diapason. Solo che, inevitabilmente, quando il Quirinale passa da un ruolo di mera garanzia a un sistematico interventismo (che pure gli è legittimamente consentito dalla cosiddetta Costituzione materiale), ecco che il rispetto dovuto alla massima istituzione di garanzia repubblicana inevitabilmente deve aprirsi anche a un altrettanto legittimo diritto di critica verso le esternazioni del Quirinale.
Personalmente, con grande rispetto per la persona e le attribuzioni del capo dello Stato, non ho condiviso il suo intervento sulla vicenda Fiat-Melfi, perché al Quirinale sapevano benissimo che intervenendo a favore dei tre licenziati e sostenendo la tesi, decretata dal tribunale, del pieno reintegro non solo economico ma anche alla linea di produzione – verdetto senza precedenti in giurisprudenza, per un’ordinanza favorevole ai ricorrenti ex articolo 28 e non 18 dello Statuto dei lavoratori –, si introduceva un precedente di fatto e non di diritto, a sfavore del diritto dell’industria a considerare giustamente lesivi scioperi legittimi che però bloccano interi stabilimenti, violando la libertà di chi invece vuol lavorare.
Su un altro livello, meno rilevante poiché siamo nel campo della piena libertà d’opinione politica e non in quello dell’attesa di sentenze, le dichiarazioni del presidente della Repubblica lanciate dai giornali, come ad esempio «serve una seria politica industriale, che dia prospettive ai giovani». Dichiarazioni, a mio modestissimo giudizio, da leggere su tre piani diversi. Il primo è quello del richiamo al governo affinché nomini il successore di Claudio Scajola al dicastero delle Attività produttive. Richiamo motivato e comprensibile, visto che dall’uscita di scena dell’ex ministro sono ormai trascorsi mesi. Si possono formulare valutazioni diverse intorno ai possibili candidati che secondo le indiscrezioni di stampa il premier avrebbe nel tempo presentato al Quirinale, ma sta di fatto che in effetti la vacatio lunga mesi non è un vantaggio per il paese. Ricordo tra tutti temi in sospeso il dossier della politica energetica e la scelta di tornare al nucleare, che rischia di restare impantanata visto che fondamentali precondizioni come l’istituzione dell’Agenzia per la sicurezza nucleare (senza la quale non vi è scelta dei siti potenziali) sono rimaste sinora bloccate.

Un po’ di nostalgia del dirigismo che fu?
Altro paio di maniche è invece la dizione stessa di “politica industriale”, e il richiamo ai giovani disoccupati. Su questo, non credo sia mancare di rispetto al Quirinale se si opina che sono parole attraverso le quali si esprime la cultura politica alla quale appartiene per lunga militanza il presidente. Dire “politica industriale” può concretamente significare infatti due cose. Se si guarda all’esperienza europea, è un richiamo al modello francese, cioè a quello in cui governo e Stato fissano con propria priorità una serie di settori definiti “strategici”, su cui concentrano incentivi e ai quali danno obiettivi, esercitando sul loro raggiungimento una fortissima influenza diretta. Ma non è il modello scelto dal nostro paese, e anzi praticamente da nessun paese europeo, anche se pure in Germania nella crisi si sono viste pesanti eccezioni alla regola per la quale gli incentivi e gli aiuti sono temporanei e riguardano la generalità delle imprese, lasciando alla libera concorrenza del mercato l’opportunità di raggiungere i migliori risultati di cui è capace. Altrimenti, nel contesto italiano, “politica industriale” significa il ritorno a quella che si faceva prima dello smantellamento della Prima Repubblica: perché in realtà il modello successivo, quello di bandi aperti a tutti voluto da Pierluigi Bersani e lasciato in eredità a Scajola sotto la sigla di “Industria 2015”, in realtà ha avuto un bilancio tutt’altro che esaltante.
Non credo affatto che sia il dirigismo di Stato a risolvere il problema storico della cronica sottoccupazione al Sud di giovani e donne. Il presidente ha pieno diritto, eventualmente, di pensarlo. Ma resta a tutti, a quel punto, il diritto di criticare e non essere d’accordo.